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Il contratto unico è un altro grande abbaglio

21 dicembre 2011

Pubblicato in: Interviste

Attenzione alle parole ingannevoli. Questo è un fondamento essenziale della buona didattica, di cui i professori dovrebbero ricordarsi anche quando diventano ministri. Specie allorché le parole ingannevoli si traducono in stereotipi, luoghi comuni che scacciano la moneta buona con quella cattiva. Si prendano due espressioni idiomatiche ricorrenti: garantiti/non garantiti, insiders-outsiders. Chi sarebbero i garantiti? I lavoratori della Fiat, compresi quelli di Termini Imerese, tutti coperti dall’articolo18? Nel settore privato nessuno è garantito, come le cronache della crisi rendono evidente. Quelli del settore pubblico e parapubblico? Lì non c’è bisogno di abrogare l’articolo 18 per licenziare i famosi fannulloni: basterebbe applicare quella norma e licenziare per giusta causa o giustificato motivo quelli che non fanno il loro dovere, a partire dal numero incalcolabile di quanti sono entrati nella pubblica amministrazione nell’ultimo decennio grazie allo spoyl sistem e alle assunzioni clientelari.

Ma le due formule per eccellenza ingannevoli sono oggi flexsecurity e contratto unico. Infatti, il cosiddetto contratto unico sarebbe in realtà un contratto in più da aggiungersi alla pletora dei contratti precari (il contratto a termine, la
somministrazione, il lavoro a chiamata, le collaborazioni ecc.). Un contratto aggiuntivo, quindi. Altamente insicuro perché privo di tutele nei confronti del
licenziamento ingiustificato. Cosicché la celebrata flexsecurity diventa subito flexinsecurity. Si aggiungerebbe quindi un nuovo dualismo alle molte frammentazioni che affliggono il mercato del lavoro italiano.

Altro che totem dell’articolo18. Il vero totem è costituito dalla falsa, smentita da tutte le statistiche serie, idea secondo cui per favorire le assunzioni si dovrebbero liberalizzare i licenziamenti. Non serve molto per intendere che, specie in una fase di crisi, tra i due termini c’è una certa contraddizione. Non dissimile da quella insita nella decisione di prolungare l’età pensionabile degli occupati per aprire il mercato ai giovani.

Salvo scordare che se si liberalizzassero i licenziamenti i candidati sarebbero proprio quegli ultracinquantenni per cui si è prolungata l’età lavorativa: proprio quei padri che non si sa che cosa dovrebbero restituire ai figli, non avendo più nulla da dare. Dovrebbe invece essere ben chiara una distinzione: la differenza radicale che corre tra sacrifici economici e sfera dei diritti di fondo, su cui si basa
uno Stato di diritto degno di questo nome. Dalla crisi in corso usciremo con buona probabilità più poveri. Bisogna con ogni mezzo evitare che ne si esca anche più incivili.



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