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Partito Democratico - Emilia-Romagna
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Renzi: “Vi racconto la mia Italia come una favola”

6 marzo 2015

Pubblicato in: Interviste

Matteo Renzi, anno due. Sono i giorni del rallentamento: sulla scuola, sul falso in bilancio, eppure il presidente del Consiglio a Palazzo Chigi apre l'agenda del secondo anno di governo. «Dobbiamo accelerare su scuola, ambiente, cultura. Sulle Unioni civili dobbiamo procedere con la stessa determinazione che abbiamo messo sulla legge elettorale. Fare le cose di sinistra. In Europa siamo considerati il governo più a sinistra. Tsipras l'abbiamo aiutato noi con Hollande e i greci ce lo hanno riconosciuto. Solo in Italia c'è chi mi considera di destra, chi ripete che noi avevamo un accordo segreto con Berlusconi per il presidente della Repubblica. Qualche volta lo avete scritto anche voi dell' "Espresso" ... »

Non era vero, presidente?

«A Berlusconi abbiamo detto: ti diamo un nome nostro che puoi votare, molti dei suoi lo hanno fatto. Se gli avessimo dato una terna, come nel 2013, gli avremmo consegnato il diritto di scelta. Saremo anche di destra, come dice qualcuno di voi, ma almeno questo errore non lo abbiamo fatto».

Sulla crescita, nonostante il suo ottimismo e gli 80 euro, anche il 2014 si è chiuso con il segno meno. Cosa prevede per il 2015?

«Un anno fa avevamo dato un quadro in linea con le previsioni europee. A rallentare non è stata l'Italia, noi siamo migliorati rispetto al passato, è stata l'Europa. Per il 2015 l'Ue ci assegna un più 0,6, Banca d'Italia più uno, Confindustria lancia cifre molto più positive. Noi abbiamo previsto un più 0,5: tutto quello che viene in aggiunta è un tesoretto che utilizzeremo. I segnali positivi non bastano, ma se cancelliamo la paura possiamo farcela. Giusto per fare un esempio: i soldi risparmiati dagli italiani per paura dal 2012 a oggi sono più del piano Juncker. Ci sono pezzi d'Italia che sono già ripartiti e che vanno più forte della Germania. Il debito pubblico è alto, ma la ricchezza privata è il doppio. Abbiamo un sistema pensionistico tra i più sostenibili e un sistema bancario molto solido, la nostra operazione sulle banche popolari lo rafforzerà ancora di più. A tutto questo vanno sommati i denari recuperati con il rientro dei capitali».

Abbiamo dovuto aspettare la pubblicazione della lista Falciani per vedere la firma dell'accordo fiscale con la Svizzera...

«Non c'è solo la Svizzera. Io, per esempio, spero di recuperare un po' di denari anche dal Vaticano».

Dai conti dello Ior? C'è una trattativa in corso?

«Stiamo discutendo. Quello che abbiamo fatto con la Svizzera, con Montecarlo o con il Liechtenstein vogliamo farlo anche con il Vaticano. Ci sono molti italiani coinvolti e credo che la Santa Sede sia interessata a fare un repulisti».

Ci saranno nuove riforme? Le Regioni: da tagliare, da accorpare?

«Non ho niente in contrario, ma il tema non è all'ordine del giorno. Non ci sono i numeri in questa legislatura, non siamo riusciti neppure a inserire nella riforma della Costituzione un emendamento sulle macro-regioni. Ma sulla riforma dello Stato stiamo facendo un grandissimo lavoro. Riorganizzare lo Stato significa superare il Senato, le province e scommettere sull'innovazione tecnologica e la semplificazione. E poi passare a quattro corpi di polizia. Su questo abbiamo una delega nella riforma Madia. Va razionalizzata la presenza in mare: non puoi avere troppe sovrapposizioni. E poi i ministeri devono parlarsi di più. Per me è inaccettabile che si chiamino per sigla: Mef, Mit, Miur, Mibact, Mise... Ci sono enti che fanno la stessa cosa in tre ministeri diversi. Tecnici che scrivono con un linguaggio spesso oscuro. La Sogei ha duemila ingegneri e non funziona come potrebbe: siamo nella stagione dei Big data. Il sistema con cui lavora oggi l'Agenzia delle Entrate a me non piace: non è chiaro, lascia spazio a discrezionalità incomprensibili. Il modello della Pubblica amministrazione per i cittadini è l'i-Phone: una schermata con un unico codice tante applicazioni. Arriveremo a pagare le tasse con un sms. Oggi invece ci sono l'interpello, il silenzio-rigetto... Occorre una semplificazione che non si fa da un giorno all'altro, ma dopo l'approvazione della legge Madia tante cose andranno smontate. Per il governo io ho in testa il modello di una giunta che funziona con un forte potere di indirizzo del sindaco».

Infatti lei tratta i suoi ministri come assessori: ministro dell'Istruzione Stefania Giannini non sapeva nulla del decreto scuola, Pier Carlo Padoan non sapeva nulla del decreto fiscale, Paolo Gentiloni e Roberta Pinottl sono stati smentiti sui soldati in Libia. Comanda lei con Lotti, Boschi, Manzione, Gutgeld...

«Non è vero. Sul ministro Pinotti c'è stato un chiarimento nel governo e ci siamo spiegati. Il ministro dell'Economia sapeva tutto del tetto del tre per cento, il testo è stato concordato con lui e poi discusso in Consiglio dei ministri. Il Consiglio è un organo collegiale. Mi dicono che esagero, perché l'articolo 95 della Costituzione prevede la responsabilità dei ministri sui loro dicasteri. Ma in tutti questi anni si è esagerato in senso opposto. Non esiste che un ministro faccia un decreto e poi venga a comunicarcelo. Sulla scuola ci siamo impegnati con il Presidente della Repubblica e con le opposizioni a presentare meno decreti possibile. Mettiamoci d'accordo: prima mi accusano di essere un dittatore che vuole fare tutto da solo, se presento un disegno di legge aperto alla discussione mi accusano di non decidere. Ci sono sei mesi prima di assumere i precari, vediamo se la legge va avanti o se ci sarà il requisito di urgenza per un decreto».

Lei parla da sindaco d'Italia. È il suo progetto istituzionale?

«È un'immagine. La sostanza è che stiamo facendo una riforma storica sul bicameralismo e una legge elettorale con il ballottaggio e con il premio di lista che cambierà il sistema. E su questo punto spero che si apra una seria discussione nel Pd».

Quale?

«Se passa il premio alla lista serve una riforma del partito. Se questo può aiutare la discussione interna, sono pronto a discutere di albo degli elettori e a eliminare le primarie per eleggere i segretari regionali. Ritornare a un partito in cui essere iscritti, avere la tessera del Pd in tasca, significhi contare nelle scelte».

Ma come, proprio lei vuole restaurare li partito delle tessere?

«Un partito che punta al premio di lista deve essere meno leggeri di quanto io immaginassi in origine. Serve una strada nuova rispetto al vecchio medello di partito ormai superato, ma anche rispetto al vecchio modello di partito all'americana che era il mio sogno iniziale. Un partito che non sia solo un comitato elettorale. Se nel PD si vuole discutere di questo sono pronto. Anche se so che una parte dice di no a tutto per principio. Faccio le riunioni? Troppo poco. Non faccio le riunioni? Vuol dire che decido da solo. Mi sembra il modello “Cara ti amo” di Elio e le Storie Tese: se resto in casa mi opprimi, se esco che questa casa non è un albergo...».

È questo lo stato del dialogo tra lei e Pier Luigi Bersani?

«Lo rispetto, ma non abbiamo mai trovato un canone di feeeling personale. I suoi suggerimenti su tante questioni sono preziosi. Ma la sua battaglia su dettagli della legge elettorale è incomprensibile. Nel Pd c'è chi ha combattuto una vita per il doppio turno senza ottenerlo, noi ci siamo riusciti. Il premio alla lista vuol dire vocazione maggioritaria. Le preferenze? Ci sono, per di più di genere. Se mi avessero detto all'inizio che facevamo una legge elettorale così non ci avrei creduto neppure io! Perciò questo continuo rilancio non lo capisco più. Me lo spiego solo con la necessità di tenere il punto. Ma lo facciano sulla povertà, sul lavoro, sul modello educativo del Paese, sulla Rai, non per togliere i candidati di collegio e tornare alle liste bloccate!»

Anni fa lei diceva che i renziani «sono una malattia». È diventata un'epidemia. Sono tutti renziani e divisi tra loro: catto-renziani, renziani ortodossi. Ma come cultura politica, che cos'è il renzismo?

«Il renzismo non esiste. Esiste il Pd».

Di Pd ce ne sono tanti. Qual è II suo?

«Quello che ha preso il 41 per cento alle elezioni europee. È un accidente della storia? E un voto che si è costruito per sottrazione, rispetto alla crisi di Berlusconi e alla paura di Beppe Grillo? Per me è stato il tentativo di dipingere un'idea dell'Italia. L'Italia paese della speranza, in cui tutto è ancora possibile, contro Grillo, Berlusconi, Salvini e lo stesso Vendola che parlavano il linguaggio della rabbia. Questo ci chiede il popolo del 41 per cento. Per questo siamo stati il partito più votato d'Europa. Per continuare a sviluppare questa idea c'è bisogno di più riflessione, più preparazione. E più comunicazione: non è lo strumento che nasconde la politica, ma la interpreta e la racconta. Guardi il Jobs Act: dopo l'approvazione al Consiglio dei ministri del 24 dicembre il capogruppo del Pd Roberto Speranza ha esultato e Maurizio Sacconi dell'Ncd si è lamentato. Due mesi dopo il contrario, escono le deleghe. I testi sono identici , ma questa volta Sacconi esulta e Speranza si lamenta. Tutto è comunicazione. Da parte nostra è una comunicazione schizofrenica!»

Cosa dovrebbe fare Speranza, rilanciare I suoi tweet?

«Lasci perdere, non ne faccio più neppure tanti. La comunicazione non è "House of card è come raccontiamo agli italiani una storia. Alessandra Moretti lo sta facendo in Veneto, si è dimessa da europarlamentare, sta girando la regione comune per comune per presentare la sua idea e ha smesso di andare in tv. Anche se l'altro giorno, scherzando, ho detto: riportatela in un talk, sennò si dimenticano di lei... Bene andare nei piccoli centri, ma la accolgono meglio se la sera prima è stata in tv».

C'è il Pd della comunicazione e c'è il Pd della Campania di Vincenzo De Luca. Dov'è il rinnovamento?

«Se fai le primarie devi accettare il risultato. Io ho lasciato libero il partito di fare come voleva. Non esiste un renzismo applicato ai territori, ognuno fa quello che gli pare, anche troppo, dicono i miei. L'unica responsabilità che rivendico è quella delle cinque donne a guidare le liste alle europee e di aver rovinato la vita a qualche sindaco».

Chi vede come alternativa a Renzi alle prossime elezioni, quando ci saranno: Salvini? Grillo? Berlusconi? Fitto? Alfano?

«Intanto bisogna vedere se sarò io il candidato del Pd... faremo le primarie. Io correrò contro chi vuole presentarsi».

Anche se lei è il premier uscente?

«Per me è un punto fermo. Il candidato premier va scelto con le primarie. Serve una fortissima investitura popolare. E il candidato premier è anche il segretario del partito: i due incarichi coincidono. Se perde, fa il capo dell'opposizione».

Fuori dal Pd esiste un'alternativa a Renzi?

«A sinistra c'è già. Vedo che ci pensa Maurizio Landini. Non capirei certe contestazioni che ho ricevuto in alcune fabbriche da parte della Fiom se non in base a un disegno politico. Oppure Laura Boldrini: non mi spiego certe posizioni che ha preso negli ultimi giorni, uscendo anche dal suo perimetro di intervento istituzionale con valutazioni di merito se fare o no un decreto che non spettano al presidente di un ramo del Parlamento. A sinistra qualcuno ci sarà, facciano loro. Del resto se sposiamo la logica del “pas d'ennemis à gauche” perdiamo le elezioni e non governiamo. Ricorda l'Unione?»

E a destra?

«Mi ha impressionato la piazza di Salvini. È una destra inedita: Le Pen, Casa Pound e i leghisti delle valli bergamasche tutti insieme. Non la temo, ma non la sottovaluto. E il Pd deve riflettere:
fuori da noi non c'è sinistra Dem, c'è questa roba qua».

Il Pd è lontano dalle periferie? Per un pezzo dl Veneto il benzinaio Stacchio che ha ucciso un rapinatore è un eroe. E per lei?

«Per me è una persona che ha chiesto di non essere trasformata in eroe e ha raccontato con grande umanità il suo dolore. Trasformarlo in un simbolo è un'operazione barbara e cinica, lui ha chiesto di non farlo. Come dire che i terroristi arrivano con il barcone. Poi si scopre che il boia dell'Is è di Londra. È l'Europa che lo ha esportato, non il contrario. La questione delle periferie non è di ordine pubblico, ma urbanistica. Le città diventano sicure non con l'esercito ma con progetti di riqualificazione come quello di Renzo Piano per cui abbiamo investito cinquanta milioni».

Lei ripete: tratto con Beriusconi perché rappresenta i moderati. È ancora così?

«Per il momento sì. Berlusconi è il capo del principale partito dell'opposizione, dato che Grillo si tiene fuori da tutto, si marginalizza da solo. Ma sono rimasto molto scottato dall'atteggiamento di Berlusconi sull'elezione di Mattarella. Io sono stato serio con lui. E leale con il Patto del Nazareno che non conteneva la presidenza della Repubblica».

I berlusconiani però giurano il contrario.

«Nessuno di noi ha mai detto che il Nazareno riguardasse il Quirinale. Poi c'è una letteratura per cui questo accordo comprendeva qualunque cosa, anche la campagna acquisti del Milan. Io ho mantenuto il patto, Berlusconi no. Penso perché costretto da Brunetta. E da qualche stratega illuminato di Palazzo Grazioli ».

Brunetta è il capo di Berlusconi?

«Dal primo giorno il capogruppo di Forza Italia alla Camera, a differenza del Senato, ha remato contro le riforme e il patto del Nazareno. Brunetta ha lavorato per fare fuori le colombe».

Chi sarebbero? Il suo amico Verdini?

«Capisco che definire Verdini colomba sia una trasformazione ornitologica sorprendente: lui era il capo dei falchi quando avevano loro la maggioranza. Ma Verdini è un pragmatico, che conosce la prima regola della politica: i rapporti di forza. Sa che abbiamo i numeri anche da soli. Io l'ho sempre detto a Berlusconi: il patto con te lo faccio per un atto politico, non per una necessità numerica. Lui ha cambiato idea, i colloqui tra Brunetta e una parte della minoranza del Pd lo hanno
convinto che sulla riforma costituzionale mi sarei fermato. Invece siamo andati avanti. Ora mi auguro che Forza Italia torni alla ragionevolezza: questa norma l’abbiamo scritta insieme. Come spiegheranno il voto contro?»

Sulla possibile acquisizione di Rcs libri da parte di Mondadori il ministro Franceschini si è detto preoccupato. Condivide?

«Capisco Dario. Ma non sono preoccupato. Il problema di Rcs, vogliamo dirlo? È che un’azienda straordinaria è stata fortemente indebolita. Non mi preoccupo dio Mondadori, mi preoccupo di Rizzoli-Corriere della Sera il cui valore è stato distrutto da scelte discutibili. Mi dispiace da italiano che una grande azienda editoriale sia in difficoltà».

E l’opas di Mediaset su Raiway? Neppure quella la preoccupa?

«Io dico: venti anni fa eravamo dei competitor forti sul piano europeo, ora non lo siamo più. A me interessa che ci sia un investimento per il futuro. Mediaset ha una strategia aziendale? La rispetto. Facciano ciò che serve per la loro azienda rispettando le regole. E noi le regole non le cambiamo per Mediaset, né in positivo, né in negativo. Il 51% di Raiway deve restare pubblico, su questo non si discute. E la Rai deve ragionare su come vendere la sua fiction all’estero, come produrre programmi in lingua inglese, creare cultura. Io immagino una Rai che parli della storia d’Italia non solo con le teche, ma con un linguaggio che emozioni i ragazzi».

Sembra la Rai pedagogica, monocolore: biancoenero e dc, quella di Ettore Bernabei negli anni 60.

«Biancoenero a me non l’ha mai detto nessuno! Scherzi a parte, quella di Bernabei aveva un valore educativo, io penso a una televisione divulgativa modello maestro Manzi».

Lei ha scritto: “Dobbiamo cambiare modo di raccontare l’Italia”. Ma spetta al premier decidere come si racconta l’Italia?

«Il premier è uno che racconta una storia. Se non sa farlo il resto è inutile. La novità rispetto al passato è che la nostra è una storia vera, credibile».

A volte il premier racconta anche qualche favola. L’importante è che non pretenda che tutti ripetano la storia che vuole lui.

«Non parlerò mai male delle favole. Sa cosa diceva Chesterton? Le fiabe non dicono ai bimbi che il drago non esiste, dicono che il drago può essere sonfitto. Certo, io non voglio una Rai moralista. Ma il servizio pubblico che educhi i bambini a entusiasmarsi per la Turandot. Una Rai che venda meglio i suoi prodotti senza svendere la sua identità».

Servirà a questo il decreto per cambiare la governante Rai?

«Non sarà un decreto. Faremo un provvedimento per consentire al capo dell'azienda di non dover più sottostare a procedure burocratiche chilometriche o avere l'incubo della Corte dei conti. E mi piacerebbe che ogni rete avesse la sua dentità».

Prima ce l'avevano: la lottizzazione politica.

«Dovranno avere un'identità culturale. Raiuno generalista, su Raidue l'innovazione e la sperimentazione, su Raitre la cultura. E non voglio più andare in giro per il mondo con cinque microfoni della Rai a intervistarmi. Ne basta uno».

E In Italia continuerà ad andare in giro con l'elicottero di Stato?

«Certo. L'ho preso e continuerò a prenderlo. Tutte le volte che sarà necessario».

È un'immagine motto lontana dal sindaco che prendeva il treno da solo e tuonava contro la Casta?

«Volevo far vedere che un politico, un sindaco, fa una vita normale. Mi muovevo in bici, andavo a correre, non avevo scorta. Ovvio che facessi Roma-Firenze in treno e con il trolley. Adesso non sono più un cittadino normale. Quando vado a dormire ho un poliziotto che mi accompagna, mi controlla e mi chiude dentro. Quando sono in albergo c'è un agente che mi piantona fuori, se vado in libreria ho persone che mi scortano. Un conto è la casta, migliaia di persone che usufruiscono di benefit che non dovrebbero avere, un altro sono i protocolli di sicurezza di una persona che fa pro tempore il capo del governo del sesto paese industriale del mondo e non può farne a meno, sempre pro tempore. Quando sono arrivato a Palazzo Chigi non avevo la scorta. E il giorno in cui avrò finito dirò: ora non voglio più nessuno. Grazie del vostro servizio, arrivederci, lasciatemi solo. Ma finché faccio il premier la sicurezza delle istituzioni viene prima della demagogia».


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