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14 settembre 2012

Pubblicato in: Attualità

Che lo statuto dei lavoratori abbia costituito un freno alla occupazione, come ha sostenuto il premier, è una affermazione tanto infondata sul piano storico quanto sbagliata concettualmente.

Non fu infatti lo Statuto, del 1970, a provocare la successiva crisi economica e occupazionale della metà degli anni 70 ma piuttosto il primo shock petrolifero, con tutte le conseguenze derivate dal mutamento delle ragioni di scambio delle materie prime. Non ha senso inoltre mettere in contraddizione i diritti del lavoro e le esigenze del mercato.

Su questa strada tanto varrebbe dire che solo il capitalismo selvaggio, senza regole e garanzie per chi lavora, è la via d'uscita dalla crisi. Ciò non toglie che sia altrettanto sbagliata l'idea di contrapporre a questa impostazione liberista un puro e semplice ritorno al passato, alla restaurazione del bel mondo che fu, come proposto dalla iniziativa referendaria promossa negli scorsi giorni.

In premessa va detto che i referendum in tema di lavoro portano male. Nel 1985 la sconfitta al referendum portò alla abolizione della scala mobile.

Nel 1995 un referendum sull'art.19 dello Statuto dei lavoratori (in tema di rappresentanze sindacali aziendali) ha determinato l'effetto contrario rispetto a quello voluto dai proponenti: l'esclusione dei sindacati che non firmano accordi dal diritto a costituire rappresentanze aziendali, com'è accaduto alla Fiat. Nel 2003 un referendum con cui si chiedeva di estendere l'art.18 a tutte le imprese, a prescindere dal numero dei dipendenti, non raggiunse neppure il quorum e produsse la conseguenza di rendere irrilevante la battaglia sui diritti del lavoro, pure condotta con efficacia dalla Cgil negli anni precedenti. Non è una questione scaramantica. È che i temi del lavoro non si prestano a pronunciamenti a colpi di sciabola: sì e no.

Già solo per questo l'iniziativa proposta dallo strano assemblaggio che l'altro giorno ha depositato i quesiti in Cassazione è criticabile. Ciò sia detto a prescindere da ogni osservazione sul carattere evidentemente strumentale della iniziativa. Dato che nel prossimo anno non si potrà svolgere alcun referendum e che neppure potranno essere raccolte validamente le firme è chiaro che si mira ad altro: forse alla riedizione della già fallimentare "lista Arcobaleno".

Nel merito poi occorre distinguere. Un conto è l'art. 8 della legge-Sacconi, voluta dal governo Berlusconi in articulo mortis che favorisce la de regolazione del diritto del lavoro tramite accordi aziendali. Questa norma incivile, per quanto di fatto sterilizzata, va comunque cancellata dall'ordinamento. Bersani farebbe bene ad includere questa iniziativa nel programma dei suoi primi cento giorni. Altra cosa è la nuova e complessa disciplina dell'art.18 introdotta dalla riforma Monti-Fornero.

A chi scrive questa norma non piace, pur essendosi adoperato a contrastare il peggio che poteva accadere, ovvero la totale abrogazione del diritto alla reintegrazione in caso di licenziamento ingiustificato. Ma è evidente che pensare di ristabilire la situazione quo-ante con un referendum è privo di senso.

Meglio è verificare i modi di applicazione della nuova disciplina ed eventualmente poi introdurre adeguati correttivi. In ogni caso a me pare certo che ove si ponesse ai cittadini italiani la domanda secca «volete voi reintrodurre il vecchio art. 18 dello Statuto?» la maggioranza di essi direbbe no o, molto probabilmente, non si recherebbe neppure alle urne.

Perché dunque disperdere energie in battaglie perse o addirittura controproducenti? Solo una vecchia sinistra ideologica alla disperata ricerca di spazi di sopravvivenza, per di più mescolata in modo inquietante con il tardo populismo dipietrista, può pensare che questa sia una chance e non l’annuncio dell’ennesima e inevitabile sconfitta.

Luigi Mariucci, l'Unità 14 settembre 2012


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