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Partito Democratico - Emilia-Romagna
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Investire nell'agricoltura per uscire dalla crisi. Ma il governo taglia anche qui

20 ottobre 2011

Pubblicato in: Relazioni e documenti politici

Intervento di Leana Pignedoli in aula al Senato durante la discussione sul documento di Economia e Finanza:

Signor Presidente, onorevoli colleghi, la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza non fa che confermare le preoccupazioni che il Partito Democratico ha più volte espresso. Non può esserci ripartenza se si incide solo sui tagli, se insieme al rigore della spesa, su cui siamo d'accordo e che - lo ripetiamo - per noi non è taglio orizzontale, taglio generico, ma intervento strutturale forte, fatto su misurazioni e razionalizzazioni, non si accompagna la volontà forte di far ripartire la crescita, ossia liberare le energie, incentivare le innovazioni, stimolare le intelligenze, riformare il fisco, investire sulla ricerca, avere il coraggio del cambiamento forte, passare dalla conservazione, dalle rendite consolidate alla dinamicità, a tutto ciò che parla di futuro, che pensa alle prospettive.

Questo dovrebbe fare un Paese come l'Italia che ha una storia prestigiosa, ha produzioni riconosciute nel mondo, nonostante tutto, nonostante la sua crescente perdita di credibilità. Il nostro Paese potrebbe, e invece ha un Governo che ha rinunciato, che è tutto in difesa, che fa del decreto sviluppo un campo di trattativa in cui le forze politiche di maggioranza stanno raggiungendo lo sfascio. È un Governo che parla di sanatorie, anziché di cambiamenti strutturali per predisporre il nuovo; pensa ad imbavagliare e a nascondere, anziché puntare sulla trasparenza, aprirsi alle idee migliori e lanciare una sfida aperta sui contenuti. Il Governo sceglie invece le prove di forza sulle censure dei mezzi di comunicazione e sulla giustizia.

Un Paese che ha la volontà di reagire deve avere il coraggio della discontinuità del cambiamento, di ripartire dalle proprie potenzialità e vocazioni. Occorre ripartire da due aspetti chiave: le intelligenze e le risorse naturali. Nella loro valorizzazione, e non nel loro scempio, ci sono spazi di crescita che sono a portata di mano, basta volerlo; e invece noi riusciamo a rappresentare il massimo dei paradossi.

Parlo del settore agroalimentare. Abbiamo una domanda di made in Italy agroalimentare in crescita, lo dicono i dati dell'export del settore: più 11 per cento nel 2011, in netta controtendenza con i dati dell'economia; più 1,2 per cento di valore aggiunto; più 6 per cento di dipendenti.

Il prodotto italiano ha conquistato primati nella qualità e nella salubrità delle produzioni. Possediamo un terzo delle imprese biologiche europee, che, nonostante il calo dei consumi interni, vede un mercato in notevole crescita. Abbiamo la leadership dei prodotti tipici, con 228 prodotti a denominazione o indicazione di origine protetta. I vini, la pasta, i formaggi, gli oli, la mozzarella o i prosciutti sono veri e propri ambasciatori italiani nel mondo; parlano dell'Italia più delle loro città e - ahimè! - sono i più copiati nel mondo: ma anche questo è un indicatore di successo, indice di possibili spazi di mercato che qualcuno furbescamente occupa, di nuove professioni che sarebbero possibili per molti giovani, indice altresì di nuove competenze, di nuove tecniche di produzione volte alla sostenibilità ambientale, economica e sociale, di nuove organizzazioni di vendita. Allo stesso modo, l'enormità dell'importazione di latte, cereali e carne dà l'idea dello spazio possibile.

La dieta mediterranea, apprezzata nel mondo, è sinonimo di salute, buon vivere, ma è anche uno spazio per nuove economie, nuove produzioni dedicate alle materie prime italiane, da far diventare stile di vita made in Italy anche da esportare. Abbiamo climi, know-how costruiti nei secoli non replicabili, microclimi non replicabili che permettono la riproposizione di una biodiversità sempre più preziosa nel mondo dell'omologazione globale.

Ecco, un Governo nemmeno tanto lungimirante ma normale investirebbe su tanta potenzialità, soprattutto se allertato, in questi ultimi anni di crisi difficile, della presenza di un rischio forte che tutto ciò può andare perso, che questo patrimonio può essere spazzato via. Non lo dice un'opposizione cronicamente pessimista: lo dice la fotografia del censimento agricolo. In dieci anni si è avuta una perdita di superficie agricola di 300.000 ettari; in dieci anni si è riscontrato un milione e mezzo di minor superficie aziendale e il 30 per cento delle aziende in meno. Questo non è il risultato di un destino ineluttabile: è il frutto di una politica incapace di investire nel modo giusto in agricoltura, di fare della crisi una ripartenza; è il frutto di un malconcepito uso del suolo incentrato sulla rapina per uso immediato. Mi riferisco a un suolo senza alcun valore al Sud ed elemento di speculazione edilizia al Nord.

Lo dicono i raffronti con gli altri Paesi sui redditi agricoli: nel 2010 in Europa i redditi reali agricoli per unità di lavoro sono cresciuti mediamente del 12,6 per cento, in Germania del 22,4 per cento, in Francia del 34 per cento, in Spagna dell'8,3 per cento; quest'ultimo è uno dei più bassi, ma in Italia è peggiore, perché segna un calo del 2,8 per cento, che si aggiunge al declino già conosciuto negli ultimi anni. Allo stesso modo, l'Italia agricola è ultima in graduatoria sui fattori della competitività e tra gli ultimi sulla ricerca.

All'opinione pubblica è bastato vedere una recente trasmissione inchiesta sull'agricoltura per cogliere l'enormità della contraddizione. L'immagine della pasta italiana nel mondo è ancora forte, eppure le distese dei terreni che qualche anno fa erano impegnati nella produzione di grano in Sicilia, Basilicata, Campania e Puglia ora sono desertificate e abbandonate, mentre a poche centinaia di chilometri navi cariche di centinaia di tonnellate di grano arrivano dall'Australia; aziende produttrici di latte e carne chiudono anche al Nord e contemporaneamente dei TIR oltrepassano le frontiere per portare carne e latte dal Nord Europa. Questo fenomeno non ha altro nome: è incapacità manifesta, è rinuncia di un Paese che ha un Governo che in tre anni, nella crisi più profonda, non mette al centro un settore così pieno di potenzialità, non introduce alcuna programmazione, ma ha prodotto solo un turnover di Ministri e di boutade mediatiche.

Abbiamo denunciato sin dall'inizio di questa difficile crisi l'assenza di considerazione del settore agricolo nei provvedimenti di programmazione economica che quest'Aula ha discusso: nella Nota di aggiornamento non ve ne è alcun riferimento perché non ve ne era traccia nel Documento di maggio. Si tratta di un'assenza incredibile, se consideriamo la centralità che la questione alimentare ha assunto nelle dinamiche internazionali, a partire dalla speculazione sulle materie prime e dal riflesso sui prezzi all'origine dei prodotti.

Il Partito Democratico ha denunciato questa miopia, questa inadeguatezza e ha fatto proposte concrete, non l'elenco di vertenze. Abbiamo proposto che ci sia uno sforzo univoco sulla competitività del settore, sull'innovazione, su un ammodernamento del sistema agricolo fatto di nuova organizzazione, nuove aggregazioni, nuove risorse investite sulle innovazioni tecnologiche e non solo. Stiamo conducendo una battaglia perché ci sia un ammodernamento del governo pubblico dell'agricoltura: più efficienza, meno costi, meno dispersione, meno autoreferenzialità delle strutture, più raccordo tra ricerca e sviluppo.

Non c'è più tempo per spot e slogan. Adesso è giunto il tempo in cui dimostrare capacità di governo: è questo il tempo di dimostrare se l'Esecutivo tiene davvero a questo Paese e non alla sua sopravvivenza politica. Il nostro Paese non merita questo; non lo meritano i giovani a cui si sta bruciando il futuro. Noi non rinunceremo e non saremo complici di questa vostra linea di declino.





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